Giovanni marinelli
delle impronte che lasciamo sulla sabbia del deserto della nostra vita, mettendoci a nudo, mostrando a noi – ed agli altri – senza alcuna menzogna ciò che siamo veramente, senza veli. La fotografia, unica, vede quelle tracce leggere, impalpabili ed evanescenti, che sono dietro l’espressione, che sono le discrete manifestazioni esteriori della nostra anima, fugaci, pronte per essere cancellate dalla leggera brezza della sera. Ed è qui che arriva Marinelli, quando ancora la traccia è visibile, ancorché confusa nel mulinello d’aria che la sta per cancellare, quand’è sospesa a mezz’aria nella sua leggera ma feconda obiettività espressiva.
Giovani Marinelli, con questi nuovi lavori, ha ancora una volta superato se stesso. Già consacrato come il fotografo dell’istante dell’attesa, oggi, con questi nuovi scatti, ci dimostra di saper utilizzare la sua perizia per indagare altri fondamentali aspetti delle nostre profondità. Questa volta impegna la sua arte per mettere a nudo ciò che si nasconde dietro gli sguardi. Marinelli indaga adesso qualcosa che fino a ieri era completamente sconosciuto, anche per chi si pone davanti al suo obiettivo, qualcosa che si annida nei più profondi meandri delle singole individualità. Il viso non tradisce mai, e questo Marinelli lo sa bene. Prelevarne l’aura, l’essenza, è per lui come far girare al contrario il vecchio vinile dei Led Zeppelin sui solchi di Stairway to Heaven; se ne ascolta tutt’altra canzone, un brano nuovo, disarmonico ma familiare, con parole disarticolate ma che parlano di noi. Il viso con le sue impercettibili sfumature momentanee, quelle isolate dal flusso dello scorrere regolare del tempo, porta in sé i veri messaggi subliminali della nostra anima; è sempre sincero ed impietoso.
Marinelli fa proprie solo le espressioni più impercettibili, quelle Agli albori della sua storia, ancora nella prima metà del diciannovesimo secolo, quando l’immagine fotografica non si era ancora consolidata nella percezione generale, quando le immagini della quotidianità erano solamente poche tavole dipinte o disegnate, farsi fotografare od osservare una fotografia non era semplice,innocuo e senza conseguenze, come oggi. Nessuno era abituato a vedere il mondo riprodotto in maniera tanto fedele, trasposto su carta sensibile per mezzo della sola luce, qualcosa in grado di mostrare un – quasi esatto – doppione della realtà; e ciò spaventava. Non si riusciva istintivamente a giustificare come fosse possibile fermare una scena della vita, senza da questa prelevarne o averne sottratto anche solamente una sua piccola porzione. A maggior ragione per i ritratti: era come se al soggetto venisse sottratto un velo dalla sua anima; per ogni fotografia una sua piccola parte volava via per andare ad imprimere la pellicola, ad ogni scatto una sottile velina di energia vitale si disperdeva per arrivare a comporre la nuova immagine.
Come avrebbe detto Roland Barthes, a differenza di un dipinto, davanti a quell’obiettivo il soggetto c’è stato veramente, c’e stato ed ha lasciato lì qualcosa di sé, di effettivo, qualcosa che nessun altra rappresentazione avrebbe mai potuto catturare: uno strato della sua anima, appunto. «Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa»(Susan Sontag, 1973). Sì, perché la fotografia, unica rispetto a qualsiasi altra arte, ha quella capacità di prelevare, di estrarre e fermare sulla pellicola qualcosa che è ben oltre l’apparenza.